Storia di Titina
Era il 1947 e una bambina stava per riabbracciare il padre dopo quasi dieci anni.
Tra l’ultimo abbraccio sfocato dei primissimi anni di vita e quello che avrebbe dato da questa foto a quarantacinque giorni dopo, si era interposta una guerra mondiale e un lungo silenzio di voci, interrotto solamente dalle poche lettere scritte a mano giunte a destinazione a distanza di mesi.
Fu la crocerossa a rimetterli in contatto e quando la bisnonna Giuditta poté ricongiungere la sua famiglia, forse la paura di affrontare un viaggio con due bambini, lasciare tutto e non rivedere mai più il paese si rifugiò nella speranza di un futuro più felice.In Australia li aspettava il marito, una bottega di pelletteria, una casa, una nuova lingua da imparare e una società completamente diversa da quella in cui era nata e cresciuta.
Così raccolse le poche cose in un baule di legno, il suo telaio da ricamo con le iniziali incise (Amato Giuditta), vestì con gli abiti migliori i bambini per la foto del passaporto e pochi giorni dopo si diressero al treno che li avrebbe accompagnati al porto di Marsiglia.
Nonna Titina arrivò in Australia ad inizio 1948, passò il natale in viaggio verso Marsiglia ed il capodanno sulla nave circondata dall’oceano.
In una lettera racconta così “Alto, fiero, raggiante di felicità, mio padre ci attendeva al porto di Fremantle. Finalmente la famiglia unita. Abitavamo lungo la GT. Northem Highway. Io frequentavo st. Brigid’s Shool, mio fratello Bruno The State Shool. Dopo pochi mesi parlavamo fluentemente l’inglese. Per noi ragazzi è stato facile adattarci al nuovo modo di vivere, altrettanto quanto fu un dramma, invece, per mia madre. L’Australia d’allora era terra di pionieri: pochi servizi, c’erano ancora le latrine, strade dismesse, bush tutt’intorno al paese costituito da poche case in lamiera e legno.” Poi descrive come, questo villaggio di immigrati, era fortemente in contrasto con la mentalità anglosassone della città: “A noi donne non era permesso uscire da sole o prendere parte a manifestazioni sociali, con il risultato di accrescere l’emarginazione e la solitudine. Io che crescevo ho trovato la forza di ribellarmi a quella mentalità: l’Australia aveva significato amore a prima vista, volevo a tutti i costi essere come loro, anche se ciò doveva contrastare con la mia famiglia. Australiani furono i miei primi amici e molti lo sono ancora oggi. Il mio primo lavoro alla S.G.I.O. di Perth rappresentava una rivincita sulla condizione di donna: mi sentivo orgogliosa di essere un’australiana come loro. Devo molto a questa terra che mi ha formato negli anni più importanti della mia vita, insegnandomi principi di vera democrazia e di uguaglianza che mi guidano e mi aiutano a ribellarmi contro le ingiustizie quand’è necessario”.

A 20 anni, con i suoi primi risparmi, regalò a sua madre, che aveva tanto il desiderio di salutare Bivongi ma aveva paura dell’aereo e di viaggiare da sola in nave, il viaggio e la compagnia.
Si portò solo una piccola valigia, convinta che sarebbe stato solamente un viaggio di piacere.
E mentre Titina piegava gli abiti da portare per il lungo viaggio in nave che l’avrebbe portata in vacanza a Bivongi con la madre e il fratello Bruno, un ragazzo di nome Pinuccio, tra i vicoli di quel paese, compiva gli stessi identici movimenti.
Gli abiti però li piegava su uno scaffale: aveva preso da qualche anno le redini della sartoria di suo padre e l’aveva rinnovata aggiungendo tessuti, merceria, biancheria, utensili per la casa, gioielli e tutto ciò che la clientela chiedeva.
Tutti adoravano la sua disponibilità e gentilezza. Pinuccio sarebbe stato capace di partire in treno di notte e tornare il giorno dopo con tutti i pezzi che gli avevano chiesto il giorno prima. Ci mise poco a fidelizzare i clienti e ad aumentarne il numero in maniera esponenziale, allo stesso modo, crebbe il suo nome nei paesi e città vicine.
Una mattina passarono dal suo negozio due donne per comprare qualcosa da riportare ai parenti in Australia. La più giovane aveva venti anni, due occhi azzurri vivi come il mare ed il cielo messi insieme e dei capelli sottilissimi legati stretti stretti a uno chignon alto.
Nonno dice che si capirono in un attimo e questo gli bastò per chiederne la mano ai genitori. Funzionava ancora così negli anni cinquanta.
Si sposarono poche settimane dopo e Titina si fermò a lavorare con lui in negozio.
Sua madre si trattenne giusto il tempo delle nozze per poi, pochi giorno dopo, riprendere la nave per Perth.
Quella fu l’ultima volta che nonna Titina vide sua madre, ma nessuna delle due poteva immaginarlo.
Un cancro la portò via nel 1973, pochi giorni prima che a casa ricevessero l’ultima lettera di tutti gli anni passati insieme con questo unico contatto a mano libera. Con molta tenerezza, in un misto tra italiano e dialetto, bisnonna Giuditta scriveva: “un male così brutto che non cielo auguro nemmeno alle formicule” e terminava con tanti baci ai suoi piccoli nipotini, tra cui la secondogenita Giuditta, la mia mamma.
Gli anni passarono in fretta.
A un anno dal matrimonio arrivò Mimmo, il primogenito, poi Giuditta appunto, poi Pasquale, poi Bruno e infine Lara.

C’è da dire, in premessa, che i miei nonni furono dei genitori molto aperti e con ben chiara l’idea di individuo, prima, durante e dopo la nascita di un figlio.
Entrambi adoravano stare con gli amici, organizzavano serate di ballo nel grande salone di casa e a volte lasciavano i bambini con gli zii o le tate e andavano fuori paese a ballare.
Allo stesso modo adoravano stare in famiglia, portare i bambini in gita ogni domenica e al mare tutta l’estate.
Mio nonno spesso dopo il lavoro andava al circolo a giocare a biliardo, mia nonna organizzava aperitivi, cene, tè con amici, conoscenti, persone che la incuriosivano, studiosi, artisti.
Amava leggere, non riusciva a fermarsi mai.
Nacque così, in un pomeriggio, la sua prima associazione culturale che si occupava, più che altro, di incontri letterari e lezioni gratuite di inglese.
Il negozio, nel frattempo, era diventato più grande e fornito, avevano fatto un trasloco in una sede più spaziosa e, tra il viavai di tanti garzoni (per usare un termine affine agli anni di questo racconto), venne assunto un giovane ragazzo di nome Elio Furina.
Si era da poco diplomato in ragioneria ed aveva una passione per l’arte.
Questo dettaglio cambiò tutto.
Il talento del giovane Elio trovò spazio nella pittura, scultura ceramica e negli esperimenti con multimateriali.
Attraverso l’associazione culturale nonna Titina organizzò le sue prime mostre di pittura e, nel 1986, l’associazione divenne A.M. International.

Da quell’anno la vita culturale di Bivongi, e non solo, cambiò.
Per quasi trent’anni ospitammo scambi di artisti in residenza (e sì, questa volta ci sono anche io nel racconto perché molti artisti ho avuto la fortuna di conoscerli dal vivo fin da bambina, di vederli lavorare e, bonus curiosità, nonna Titina, avendo notato anche in me questa curiosità per l’arte, mi spronava sempre a seguirla chiedendomi di attaccare al muro tra un quadro e l’altro qualche disegno fatto sul momento, facendomi sentire grande e partecipe ogni volta. Da piccola erano disegni, da grande erano gioielli, i primi, tutti storti, che lei comunque indossava fieramente ogni volta.)
Ogni scambio terminava con una mostra delle opere e quelle invendute rimanevano all’associazione che continuò a crescere fino ad avere un palazzo tutto per sé diventando così Fondazione Furina e, da un paio di anni, Museo regionale di Arte Contemporanea Angelina Melia (MacAM) con oltre duemila opere conservate al suo interno e una biblioteca in due lingue.
Elio Furina partecipò anche ad una biennale di Venezia e alcune opere finirono a New York.
Tuttora è lui che si prende cura della fondazione e racconta ai visitatori i trent’anni di questo posto.
AM divenne international, dicevo, nel 1986, con la prima mostra a Perth, durante uno scambio culturale.
Fu il modo di Titina per ricollegarsi di nuovo con l’Australia dopo trent’anni dal suo ritorno a Bivongi in nave.
Creò un luogo di cultura, un porto simbolico per ringraziare le due terre che l’avevano fatta diventare la donna che tutti abbiamo conosciuto.
Un luogo che è qua, tangibile, fruibile ed attivo, per tutti.
In un piccolo paesino di Calabria.
A ricordarci che la cultura, l’arte e le azioni non muoiono mai.

Questa foto la ritrae alla prima mostra in Australia e gli orecchini che indossa sono quelli che ormai conoscete come Titina.
Sono stati il modo in cui sono tornata da lei dopo la sua morte, a riguardare questa strada con occhi da adulta e ammirazione da bambina.
Avevo il suo giacchino quel pomeriggio addosso, camminavo in pinacoteca e leggevo stralci di autobiografia.
Rientrata a casa feci una replica di quegli orecchini per me e postai sui social la sua foto e una parte di questa storia.
Il resto lo avete fatto voi e forse per la prima volta ho sentito così tanto mio un gioiello che aveva più della semplice funzione di ornamento:
doveva portare in giro questa storia.
Se passate dalla Calabria, adesso avete un segnaposto in più da inserire.
Adele M.